Amiche e amici del Capri Comics, finalmente possiamo parlarvi del ventinovesimo film del Marvel Cinematic Universe, ovvero Thor: Love and Thunder, diretto da Taika Waititi e da lui co-scritto con Jennifer Kaytin Robinson.
Torna Chris Hemsworth ad interpretare il Dio del Tuono più buffo mai visto sul grande schermo, e insieme a lui ecco di nuovo Tessa Thompson e anche Natalie Portman, rispettivamente nei panni di Valchiria e Jane Foster, quest’ultima assurta a ruolo di vera e propria co-protagonista come nuova Thor. Arriva poi Christian Bale ad interpretare Gorr, il Macellatore di Dei, che rappresenta uno degli highlight del film.
La trama del film è molto lineare, e prende la forma di una missione di salvataggio che vede Thor, Jane, Valchiria e Korg (interpretato dallo stesso regista) inseguire il malefico Gorr, che rapisce e tiene in ostaggio dei bambini asgardiani nel corso della sua folle crociata contro tutti gli dei.
Ispirandosi a due cicli fumettistici molto cupi, quelli appunto di Gorr il Macellatore di Dei e quello della Potente Thor, Waititi confeziona un film che affronta sì dei temi molto seri, ma un po’ alla lontana, senza il dovuto coraggio. Per chi vi scrive, la natura estremamente drammatica del materiale di partenza, che vede ad esempio Jane Foster lottare contro un cancro, deve avere portato i vertici Marvel e Waititi stesso ad operare una massiccia compensazione comica in fase di costruzione, per evitare che il film si impantanasse in scelte troppo seriose. Il punto è che molti, sottoscritti compresi, hanno ritenuto troppo invasiva questa compensazione comica.
Le scene drammatiche restano isolate in un oceano di umorismo semi-demenziale che dopo un po’ confonde e infastidisce, in primis perché troppo soverchiante e anche poco ispirato, e in secondo luogo perché gli attori stentano ad elevarlo o anche solo a farlo proprio, eccezion fatta per Hemsworth, che gioca, si diverte e diverte. Passare in pochi secondi da momenti di sano e riuscito pathos a sequele su sequele di meme anche abbastanza infantili ha creato in chi vi scrive uno straniamento probabilmente voluto dal regista, ma che per noi ha depotenziato sia la drammaticità sia la comicità dell’opera.
Il risultato è perciò un film volutamente schizofrenico, con cali di ritmo e scelte comiche discutibili, ma anche con sequenze di grande impatto, un po’ come era stato Doctor Strange in the Multiverse of Madness di Sam Raimi, che però secondo noi era riuscito ad essere più coeso, pur nella sua totale follia. Una menzione speciale va alla soundtrack, semplicemente leggendaria.
Quindi… consigliamo questo nuovo capitolo della saga cinematografica di Thor?
In fin dei conti sì, perché passa veloce, a tratti diverte, a tratti fa riflettere, a tratti commuove. Altamente sconsigliato per chi non sopporta la comicità surreale e stramba.
E ora passiamo alla parte spoiler, che struttureremo semplicemente come una analisi delle scene più importanti e drammatiche del film, che da sole gli fanno meritare almeno una visione.
Non proseguite oltre se volete scoprire Thor: Love and Thunder e capire da che parte della barricata stare: se con quelli che lo odiano o con quelli che lo amano. O magari con noi, che lo promuoviamo, ma con qualche riserva.
Gli sprazzi di genio
Il film si apre con una scena devastante, che ci introduce immediatamente alla motivazione di Gorr. Tutto il senso del suo personaggio parte da una domanda terrificante per chiunque creda fermamente in un Dio: cosa accadrebbe se, dopo una vita di fede e sofferenza, incontrassimo ciò che per noi è IL Potere Superiore, e quell’entità ci umiliasse, facendoci intuire di avere sprecato la nostra esistenza? Probabilmente abbracceremmo l’apostasia. E così accade per Gorr: dopo aver perso sua figlia, la sua fede negli dei resta ancora salda, ma quando il suo Signore deride il dolore della sua perdita, lui si ribella e ottiene dalla Necrospada il potere di vendicarsi e distruggere ogni divinità. Da quel momento in poi, il personaggio si distingue principalmente per la sua presenza, inquietante come quelle di pochi altri villain dell’MCU.
L’interpretazione di Bale, a tratti delirante e sopra le righe, a tratti fredda e dolorante, raggiunge poi l’apice nella chiusura del personaggio, fulminante come l’incipit. Gorr è morente, ma può ancora compiere la sua missione di cancellare tutti gli Dei, semplicemente esprimendo un desiderio. Sta per farlo, ma a pochi metri da lui Thor abbraccia Jane, spirata a causa del cancro che l’ha prosciugata di tutte le forze in seguito alla battaglia finale. Il miracolo dell’amore e il dramma della sua perdita si susseguono ancora una volta sotto gli occhi di Gorr, che quindi sa riconoscere in Thor non un Dio da odiare, ma un’altra persona che ha perso ingiustamente chi ama, proprio come lui. Illuminato da questa consapevolezza, Gorr decide quindi di rinunciare alla vendetta che lo aveva infettato e di scegliere ciò di cui aveva davvero bisogno: l’amore. Col suo desiderio riporta in vita sua figlia, così che i due possano salutarsi un’ultima volta, chiudendo il cerchio. Da quel momento in poi, Thor e Love, questo l’emblematico nome della bimba, si prenderanno cura l’uno dell’altra, a conferma della vittoria dell’amore sull’odio.
Se il personaggio Gorr è stato una grande sorpresa, quello di Thor ha rappresentato invece la gradita conferma di un’evoluzione progressiva e interessante. Il personaggio è infatti apparentemente stupido, ma in realtà ha imparato (a sue spese) come proteggere ed ispirare i cuori puri, proprio come quelli dei bambini rapiti, che da vittime delle circostanze diventano infine eroi a propria volta. I bambini, sia quelli asgardiani sia Love, rappresentano infatti una parte fondamentale in questa storia, che definisce Thor non come Re, ma come degno successore di Odino, e quindi padre di tutti.
Anche il personaggio di Jane ottiene un interessante approfondimento, incentrato su cosa vuol dire essere un nuovo super eroe in un mondo già pieno di super eroi, con in più la consapevolezza di avere poco tempo per compiere al meglio il proprio dovere. Natalie Portman stenta un po’ con l’aspetto comico, ma centra in pieno quello drammatico, ovviamente. Gli altri personaggi secondari non offrono poi molto, ma risultano comunque funzionali.
L’aspetto visivo del film, che si muove tra l’esplosione della pop-art e la cupezza dell’espressionismo, è coerente con la doppia vita della narrazione, che appunta oscilla tra la commedia demenziale e il blockbuster d’azione con tinte horror. Il che può facilmente disorientare.
Insomma, al di fuori della cifra stilistica di Waititi, che in quanto estremamente personale può e deve dividere, il film intavola alcuni spunti di riflessione su cosa significa avere fede e cosa vuol dire perderla e recuperarla grazie ad uno dei principali motori della psiche umana, l’amore, appunto. Il che non è poco, nel ventinovesimo film di un franchise multimiliardario controllato da alcune delle più strette regolamentazioni di mercato mai viste nella storia del cinema.
Il futuro di questo Thor è ancora tutto da scrivere, ma la strada tracciata da Waititi, per il momento, e secondo noi, è quella giusta. Meme martellanti a parte. Quelli, se si potessero sfoltire un po’, non sarebbe male.