È da un po’ che ho l’ultima fatica di Michele Rech, in arte Zerocalcare. Più o meno da quando è uscito, ad inizio maggio. Perché allora ho aspettato così tanto a leggerla e a parlarvene su queste pagine digitali?

Banalmente perché è davvero difficile parlarne.

È bello, ed è più facile, parlare di spade laser che fanno swoosh e di supereroi che nonostante le mille difficoltà riescono a farcela. Ma in Quando muori resta a me si parla di persone reali o, quanto meno, talmente realistiche da farci dire “io uno così lo conosco” oppure “io una situazione così l’ho vissuta”. Perciò, ho dovuto farla sedimentare, questa storia, ritornarci, ripensarci, articolare bene le riflessioni e le emozioni che mi ha messo in moto.

Però, prima di fare partire il flusso di coscienza, facciamo le dovute presentazioni.

Il titolo è preso in prestito da una frase, quasi un tormentone, che il padrepapero di Zero gli ripete per giustificare gli acquisti più inutili e disparati.

Per chi conosce la “lore” del Calcareuniverse, l’input è quindi immediato: il co-protagonista del libro sara proprio il padre. È così, come Dimentica il mio nome esplorava la famiglia francese, qui ci si concentra sul ramo paterno della famiglia, con le sue origini in un paesino delle Dolomiti.

Il trigger della storia è presto detto: padre e figlio si recano nella vecchia casa di famiglia per riparare un banale guasto elettrico/idrico, ma una volta lì il presente ed il passato si intrecciano, rivelando impietosamente alcuni squarci estremamente dolorosi non solo di una vicenda familiare, ma di una fetta di storia nazionale.

Ora basta.

Ovviamente io consiglio vivamente la lettura di questo libro. Quindi non proseguite oltre nella lettura di quest’articolo. Andate a leggere.
Poi tornate qui e seguite le mie impressioni.

Bene… siete tornati… vi è piaciuto? Parliamone

Comincio io, e con una confessione.

I progetti “giornalistici” di Zerocalcare non li ho mai letti, non per disinteresse né per distanza di pensiero politico. Semplicemente non mi è mai capitato, e colmerò presto questa mancanza.

Detto ciò, questo libro inizia in una vera e propria “comfort zone”.

Zero piccolo, si racconta e racconta la visione di un ragazzino che affronta il divorzio dei genitori. Interessante, a tratti persino divertente alla maniera di Zero, ma capiamo che c’è di più, s’intravede qualcosa di ancora più drammatico, che ancora non si palesa.

Il tutto intervalla con quella bellissima storia nata “sulla montagna”, in cui il dialetto è indubbiamente tosto da assimilare, soprattutto per un napoletano. Però il racconto è veloce e snello.

Arrivati a metà, la situazione si complica da un l’unto di vista emotivo: Zero per la prima volta vede Michele.

Ritorna un po’ il concetto di Macerie prime e poi ripreso anche nelle serie Netflix:

“Se sei fermo, il mondo non si ferma con te”

“Stai a parlà ancora di Genova, só passati 21 anni…”

L’inesorabilità del tempo che passa.

Un tema ricorrente nell’opera di Zero, ma qui mai come prima affrontato con la più dura crudezza, senza edulcorazioni o simpatia di sorta.

Zero cerca un confronto, un consiglio. Ma è isolato dal mondo: persino l’armaddillo è lontano. Non resta che fare i conti con la vita, così come fece il padre nel momento del divorzio ed in altri momenti di una nascosta gioventù turbolenta.

Questo è il punto nevralgico della storia: l’impossibilità di comunicare sentimenti e la difficoltà nell’instaurare dialoghi tra padri e figli, separati da abissi di nondetti, imbarazzi stupidi, chiusure mentali, paure del confronto, fragilità emotive inconfessabili.

Chi conosce da vicino questa difficoltà verrà colpito come un treno da questo risvolto della storia, che non fa sconti né ai padri, né ai figli, e mette davanti all’amarezza di certe situazioni che nascono, crescono e si sedimentano apparentemente senza controllo, complice anche la storia collettiva di un luogo.

Quando muori resta a me può fare male, ma un male necessario, quello che non vorremmo affrontare, ma che sappiamo, in cuor nostro, che ci aiuterà a guarire.

Sebbene la storia si concluda con un nulla di fatto, ovvero con una incomunicabilità generazionale irrisolta e forse irrisolvibile, il finale ci fa intuire che un sentimento inespresso non è per questo meno forte, anzi.

In tal senso, la tavola in cui il padrepapero spolvera i pupazzi di Zero mi ha strappato ben più di una lacrima perché è la perfetta sintesi di un amore timido e taciuto, ma intenso e presente, in cui molti di noi possono riconoscersi quando si parla di rapporto coi genitori.

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Classe '90. Farmacista per sbaglio, noto accumulatore di giochi da tavolo. Nasce e cresce a suon di Marvel e Disney e tanto basta...

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