La nuova storia a fumetti di Zerocalcare, pubblicata su L’Essenziale di sabato scorso, 19 febbraio 2022, si chiama Strati e racconta del caso di Ugo Russo, quindicenne napoletano morto nella notte dell’1 marzo 2020, dopo aver cercato di compiere una rapina ai danni di un giovane carabiniere fuori servizio, fermo in macchina con la propria ragazza. In attesa del processo, la ricostruzione di ciò che accadde è ancora piuttosto nebulosa, ma tra i fatti più o meno accertati, al momento, ci sarebbero alcuni punti chiave.
Ugo e un suo amico notano un Rolex al polso di un ragazzo in macchina e decidono di pedinarlo in motorino e rapinarlo al momento opportuno, momento opportuno che si presenta poco dopo, quando la vettura, inaspettatamente, si ferma. Ugo si avvicina, minaccia il guidatore con una pistola giocattolo, intimandogli di dargli l’orologio. Il giovane carabiniere estrae la propria, di pistola, e, dopo essersi qualificato (o almeno così afferma), esplode diversi colpi, tre dei quali vanno a segno. Ugo viene colpito al braccio, al petto e, letalmente, alla testa, anzi, più precisamente, alla nuca, e quindi alle spalle, verosimilmente mentre era già ferito, in fuga, inerme. Il ragazzino perciò non muore di fianco alla macchina, ma vicino al motorino usato per il pedinamento, che dista ben 8 metri.
Al netto delle mistificazioni e delle semplificazioni operate, vuoi per superficialità, se non addirittura per capziosità e malafede, da organi di stampa, forze dell’ordine, opinionisti vari e parti in causa, la storia parrebbe essersi dipanata nella maniera sopra descritta. Ovviamente mancano ancora dei pezzi, e i giudici, gli avvocati, i tribunali, e anche i media, a dirla tutta, sarebbero chiamati a ricomporli e incasellarli freddamente, perché la giustizia deve essere fredda, distaccata, imparziale, altrimenti potrebbe non essere più giustizia.
O no?
Eppure, quando si indaga e si racconta una storia come quella di Ugo Russo, è davvero difficile prescindere anche da una ricostruzione emotiva, da un’analisi sociologica e psicologica articolata, da una tensione empatica, dal bisogno di porsi domande e dallo sconforto di trovarsi senza risposte, nel vuoto.
Zerocalcare la racconta così, la storia di Ugo Russo e del carabiniere che afferma di averlo ucciso per legittima difesa. La racconta cioè con empatia, amarezza e sconforto, certo, ma anche con la sua naturale verve e con il suo consueto occhio analitico, perché si rende conto che l’appiattimento, le banalizzazioni, le polarizzazioni a prescindere sono nemiche mortali del dibattito. La racconta con la dovuta schiettezza, la dovuta brutalità.
Sin dal titolo, il suo nuovo fumetto fa una dichiarazione d’intenti: Strati. Di cosa? Di complessità. Che l’autore vuole restituire ad una vicenda dolorosa e difficile. Una vicenda complessa, stratificata, appunto, che non può e non deve involversi in una inutile faida tra barricate: poliziotti salvatori contro criminali spietati, oppure proletari esasperati contro vigilanti fascisti, o addirittura, ancora più genericamente, bene contro male e buoni contro cattivi.
Zero rifiuta le polarizzazioni e invece pone domande, molte, anche sgradevoli, anche prive di risposte nette.
Dove sta il bene e dove il male? Chi sono i buoni e chi i cattivi? Cosa è successo davvero, la notte in cui Ugo è morto? Perché il carabiniere, in licenza, aveva la pistola con sé, carica, pronta a sparare? Perché una raffica di colpi? È stata una comprensibile reazione scomposta dovuta al panico? O un raptus vendicativo? Perché, quando una onorevole divisa si macchia di sangue in circostanze sospette partono immediatamente i depistaggi, gli intorbidamenti, le macchine del fango, i “se l’è cercata”?
Perché le Forze dell’Ordine non commentano, non spiegano, non riconoscono e non tentano di risolvere MAI un problema di abusi di potere che evidentemente ricorre da sempre nelle loro fila, tanto in Italia, quanto all’estero?
E ancora: perché un ragazzino di 15 anni crede che sia conveniente e giusto fare una rapina? E perché paga con la morte questa sua grandissima cazzata, e non con una ferita, un arresto, una pena rieducativa, uno, anche un solo tentativo di fargli comprendere la gravità di cosa ha fatto? È giusto che una cazzata, più o meno grave, più o meno meritevole di una punizione, ti porti alla morte per mano di un uomo o di una donna di legge, e non per effetto di una legittima difesa, ma come conseguenza di impreparazione e addirittura vendetta?
E poi: come si racconta, con onestà intellettuale, una storia così? Come si evitano le trappole della disinformazione? Non è per niente semplice, anche se si è in buona fede. Lo stesso Zero, nel citare un episodio analogo a quello di Ugo, quello cioè di Davide Bifolco, resta vittima della superficialità che ci viene offerta e che spesso e volentieri accettiamo e propaghiamo a nostra volta senza farci troppe domande. Nel citare il caso, appunto, Zero afferma che Davide è stato “ucciso per non essersi fermato a un posto di blocco, da un colpo partito per sbaglio”. In realtà, Davide non forzò alcun posto di blocco: fu semplicemente scambiato per un latitante mentre andava in tre su un motorino, poi inseguito, speronato e infine sparato e ucciso da un carabiniere. Nello scusarsi dell’errore, correggendolo nelle successive versioni del fumetto, Zero ammette di essersi limitato a riportare la narrazione espressa dalla maggior parte delle fonti, senza informarsi ulteriormente, senza indagare. Il che porta ad un’altra domanda: per i media, oggi, è più importante informare con la correttezza o con la velocità?
Zero pone questi ed altri spunti di riflessione, e lo fa con un’intensità di racconto tale da farne scaturire tanti altri. Dopo averci subito mostrato Ugo Russo, morto impietosamente in una pozza di sangue dietro ad un cassonetto, l’autore torna indietro e scrosta patetismi manipolatori e immagini distorte, e così facendo ridà alla scena iniziale il suo giusto contesto, rendendolo quasi soverchiante: un bambino fa una cazzata, ci muore e nessuno sa davvero perché e se si poteva evitare, se poteva esserci un’altra soluzione.
Resta la stoica e lucida amarezza di Enzo Russo, il padre di Ugo, che Zero intervista sudando freddo e chiedendosi come si parli “a uno che ha perso un figlio così”. Enzo Russo, però, anticipa le risposte, perché dopo due anni conosce già le domande: “Io ho fatto i miei errori. Li ho pagati tutti. Poi è nato Ugo e ho capito un sacco di cose. Anche Ugo stava sbagliando. Purtroppo non me ne sono accorto in tempo. Però questo errore non basta a spiegare quello che è successo. Quella sera di due anni fa.”
Quella sera di due anni fa, Ugo si accascia e muore vicino ad un motorino e dietro ad un cassonetto. Con lui muoiono tutte le possibilità di riscattarsi dall’errore appena commesso e di trovare il proprio giusto posto nel mondo. Con lui muore parte della normale esistenza dei suoi cari. Con lui muore anche parte della normale esistenza del giovane carabiniere e che lo ha ucciso… per errore? Per rabbia? Per paura? Per difendersi? Per odio? Chi può dirlo?
Con la sua tipica sintesi, fatta di poche scene attaccate ai personaggi, Zero ci ricorda che nelle storie così non ci sono bene e male, buoni e cattivi, assoluti e nettamente divisi, come alcuni vorrebbero invece farci intendere. Nelle storie così non vince mai nessuno. Perdiamo tutti. Chi perché è morto. Chi perché ha perso una persona amata. Chi perché ha ucciso e non sarà mai più lo stesso. Chi perché disprezza una o l’altra parte. Chi perché non riesce nemmeno a raccontarla, una dannata storiaccia come questa, e chi perché la sente lontana, romanzesca, aliena, mentre invece siamo di fronte ad una trama assai più vicina, comune e plausibile di quanto vogliamo pensare.
Recuperate Strati. Sarà uno schiaffo in piena faccia, ma di quelli necessari, che ti svegliano e ti aprono gli occhi.
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Classe ‘92. Laureato in/appassionato di: lingue, letterature e culture straniere. Giornalista pubblicista, divoratore di storie, scribacchino di pensieri propri e traduttore di idee altrui.